Federico nasce a Nuoro, ma cresce e vive a Sassari, tra gli studi, l’amore per le parole e tante canzoni, scritte accompagnandosi alla tastiera, o con la sua chitarra.
Fino al 2017 è stato il frontman, la penna e la voce de La città di vetro, la sua band, con cui ha partecipato nel corso degli anni a numerose iniziative musicali e festival, portando a casa alcuni riconoscimenti, come il secondo posto al Piccolo Festival del Cantautore & Premio A.Squarciagola.

Il 20 settembre 2020, invece, Federico si è classificato finalista al PAE- Premio Autori Esordienti con l’inedito “America”, che ha dato il nome al suo primo album da solista.
“America” è stato registrato tra il 2018 e l’estate del 2020 e pubblicato il 12 ottobre dello stesso anno su tutti i digital store e le piattaforme di streaming, con la produzione artistica di Luigi Frassetto.

9 tracce di puro cantautorato italiano, capaci di riportare la nostra mente ai maestri degli anni 70, ma con una poetica e delle sonorità moderne.
Tradizione e novità convivono e si sposano, sostenute talvolta dalla dolcezza di un fingerpicking, talvolta dal grido liberatorio di chitarre elettriche e sintetizzatori.
Abbiamo ascoltato l’album immaginando il viaggio di un cantastorie errante lungo la route 66 di un’America insolita, fatta di nebbia sottile, colori e immagini.
Ogni traccia è ricca di metafore e sensazioni atmosferiche capaci di far osservare una realtà di sentimenti e portare l’ascoltatore nello sguardo dell’autore.

Insicurezze, paure, speranze, sogni e dignità, raccontati con immagini di strade, stanze e città, come in un Monet, un dipinto impressionista che parla dell’anima in tratti accennati e apparentemente sommari, ma che in pochi colpi di setola descrivono tutti noi.
Chiudendo gli occhi e mettendo le cuffie si può sentire la malinconia di una pioggia d’agosto, la fragilità integra di una brava persona.
E alla fine del viaggio ci accorgeremo che quella che pensavamo una strada, la route 66, l’America di Federico, è stata in realtà un viaggio nel profondo dei suoi sentimenti, come se per la prima volta ci fossimo guardati negli occhi, stretti la mano e detti “Piacere”.

Ora vi lasciamo con un suo breve video live e una piccola intervista in cui sarà direttamente Federico a parlarvi del suo album.
Vi ricordiamo che in fondo alla pagina trovate tutti i link ai social e ai suoi canali.
Buona lettura!
- Raccontaci come è nato America, cosa ti ha spinto a scriverlo e cosa volevi comunicare con questo album.
Sono nove tracce che ho composto in momenti molto diversi e distanti della mia vita. Alcune risalgono a quando suonavo e cantavo da solo nei circoli Arci e nei locali di Sassari, altre canzoni fanno riferimento al periodo in cui ero il cantante del gruppo La Città di Vetro, ma non avevano trovato spazio nel nostro repertorio (eccezion fatta per Dalla finestra). L’unico brano che fa parte della mia esperienza post-band a essere finito nel disco è Atlante. Potrei dire che per comporre, registrare e produrre America mi ci sono voluti quindici anni. Dopo lo scioglimento della band, sentivo l’urgenza di condividere queste canzoni in una forma più strutturata e definita, che non fosse quella chitarra e voce o pianoforte e voce con cui li avevo portati in giro sino ad allora. E avevo capito che da solo non ne avrei cavato piede. Mi sono rivolto a Luigi Frassetto, che dopo aver ascoltato alcune canzoni ha deciso di farmi da produttore artistico. Considera che gli ho mandato i primi provini all’inizio del 2018: fra scrematura, registrazione, missaggio e mastering, il disco non è stato ultimato prima dell’estate del 2020.
Ogni traccia di questo disco ha rappresentato per me un momento di stallo. Pensavo, per esempio, che dopo aver scritto Mina non sarei più riuscito a comporre altro. Idem per America, e così via. Non sono esattamente un autore prolifico, anzi, per chiudere un brano mi ci vogliono mesi. Io non riesco a partire da una condizione di leggerezza, per scrivere devo stare male. Sono uno che accumula tensioni e paranoie, e quando queste paranoie cominciano a straripare, allora a volte vengono fuori le canzoni. Per rispondere alla domanda, fatta questa premessa sulla natura dei brani, potrei dire che a spingermi a fare questo disco è stata l’esigenza comunicativa che sta alla base di ogni essere umano – e probabilmente a me viene meglio espletarla attraverso la musica. Su cosa volessi comunicare: dietro ogni canzone c’è un mondo. Parafrasando, si parva licet componere magnis, Fabrizio De André: io sarei molto, molto contento se riuscissi anche solo a emozionare qualcuno.
2. In America, la title track dell’album canti “piangi poeta naufrago in un mare di nomi”. Come vedi la figura del poeta all’epoca del digitale e della società liquida e massificata che viviamo? Soprattutto, esiste ancora il poeta?
Credo che il ruolo del poeta sia sostanzialmente quello di far guardare la realtà attraverso degli occhi diversi rispetto a quelli che usiamo di solito – e penso che questo fosse vero cinquant’anni fa come adesso. Sull’esistenza del poeta, non ho dubbi: i poeti esistono ancora, non foss’altro perché la loro opera è più longeva di quanto non lo siano i poeti stessi – e perché, fortunatamente, ai grandi nomi del passato se ne affiancano altri del presente. Forse dovremmo chiederci quante persone siano ancora disposte, o predisposte, a leggere la poesia. Hai citato, molto giustamente, la società liquida. È vero, siamo bombardati ventiquattr’ore su ventiquattro da notizie, si è passati dall’era del possesso a quella dell’accesso, e c’è chi sostiene che l’estrema facilità con cui si possa appunto accedere alle informazioni sia in realtà dannosa, perché ci porta ad avere un rapporto “da playlist” con ciò che leggiamo/ascoltiamo senza permetterci di entrarvi in stretta relazione. Fermo restando tutto ciò, io, che sono un pessimista patologico, in questo caso sarei timidamente ottimista: credo che in fondo una certa sensibilità per la parola scritta in versi permarrà. Forse i lettori di poesie diventeranno simili a dei carbonari, ma sopravviveranno. Non riesco a figurarmi un mondo altrimenti, e non è né una visione edulcorata né un’immagine romantica – semplicemente credo che in fondo l’uomo non possa fare a meno di scrivere o di leggere. Ovviamente, i contesti socio-culturali in cui questo avviene stanno mutando sempre più velocemente, e ciò influenza l’intera filiera dell’industria culturale.
3. In molti brani, ad esempio “sui vetri appannati dal tempo”, “dalla finestra” e “contemplazioni”, guardi e descrivi il mondo come attraverso un velo, portando l’ascoltatore nel tuo sguardo con immagini nitide ed evocative. Cosa c’è dietro quel velo?
Il velo è un’immagine molto bella, è qualcosa che ci protegge dal mondo esterno. Dietro quel velo c’è un altro mondo, fatto di idiosincrasie, di timori, quelli che ti perseguitano la sera quando torni a casa e si nascondono negli angoli della cucina o della camera da letto, quelli che ti assalgono quando ogni mattina ti guardi allo specchio e vedi che hai sempre meno capelli e sempre più occhiaie. E ti chiedi cosa fare da grande, cercando volutamente di ignorare che hai trent’anni e che forse sei diventato grande da un pezzo ma non te ne sei accorto, o hai bellamente sottovalutato il tutto. Ecco, più o meno questo è quello che c’è. Tanta ansia, tanta paura, tanto senso di inadeguatezza – so che può sembrare una risposta data per assumere la posa del bello e dannato, ma so anche di non avere lo spessore né dell’uno né dell’altro (non fumo, non bevo e sono più di dieci anni che non mi faccio una canna). Si tratta di una consapevolezza che ho raggiunto col tempo: quella di sentirmi fuori posto nel novanta per cento delle situazioni. Ci convivo, non sempre serenamente.
4. La pandemia globale ha messo in ginocchio il mondo della musica e dei lavoratori dello spettacolo in genere. Cosa consigli a un giovane artista che ha appena iniziato il suo percorso davanti a questa situazione?
Non so se sono nella posizione per dare consigli, io stesso come emergente sono un po’ attempato, preferisco sempre definirmi “subacqueo”. Così di getto, credo che la cosa più importante sia pensare a comporre prima di tutto delle canzoni che ci assomiglino, e che abbiano prima di tutto il nostro placet. Essere sinceri con se stessi è un punto fondamentale, non è obbligatorio scrivere canzoni: bisogna capire se esiste una vera esigenza comunicativa, e capirlo è tutt’altro che semplice. Con l’avvento del digitale, produrre musica in casa è praticamente a portata di tutti – il punto è che non tutti sono Bon Iver (mi riferisco al primo disco, For Emma, forever ago) o Billie Eilish.
Un altro nodo è quello della musica dal vivo, che per un musicista è fondamentale, sia per un fatto di esperienza che per una questione economica. L’ipotesi che la musica dal vivo possa essere rimpiazzata in toto dai concerti in streaming, la vedo abbastanza difficile. Possono essere delle esperienze “spot”, sicuramente interessanti da un punto di vista sociale – cito il caso di Travis Scott che ha già fatto storia, ma mi vengono in mente anche Billie Eilish, Phoebe Bridgers e, per rimanere nello stivale, Alberto Ferrari dei Verdena e i The Zen Circus. Sono convinto che si dovranno trovare, e confido che sarà così, delle formule per assicurare la ripresa dei concerti dal vivo, ovviamente nel massimo rispetto delle misure anti-pandemia. E in quel caso, a questo fantomatico giovane artista consiglierei di suonare il più possibile. Ma, prescindendo dalla situazione terribile che stiamo attraversando, per un musicista la pratica sui propri brani è irrinunciabile: quindi, suonare tanto, tantissimo, anche quando si è in casa propria. Prendere dimestichezza con la musica, studiare almeno il minimo indispensabile di armonia (distinguere perlomeno un accordo maggiore da un accordo minore) e di solfeggio (distinguere un battere da un levare, o un 4/4 da un 6/8) per entrare in possesso di un linguaggio consono – io stesso mi ci sto confrontando da qualche anno ed è una continua battaglia. Confrontarsi con altri musicisti, specie se più esperti, e imparare ad accettare i consigli e le critiche. È importante entrare nell’ottica che da soli non si va da nessuna parte. Nel disco suonano persone che stimo molto; per portare le canzoni dal vivo, ho tirato su un trio coinvolgendo due musicisti preparatissimi ed entusiasti del progetto (Gabriele Pedranghelu alle tastiere e Matteo Pipia alla batteria) – poi le cose sono andate come sappiamo.
Infine, è fondamentale essere un buon PR di se stessi. E su questo non saprei veramente che suggerimenti dare, perché sono un asino.
5. L’America è stata da sempre associata alla terra delle possibilità, dove potersi realizzare e dar vita ai propri sogni. Qual è l’America di Federico?
In tutta onestà, non lo so. Mi verrebbe da dire che questo non è un paese per musicisti, ma sarebbe scorretto e un po’ troppo autocommiserativo. Però è un dato di fatto, almeno per me: io non campo dalla musica. Ho sempre fatto altri lavori oltre al musicista, ammesso che io possa definirmi tale. Credo che ciò che conta in realtà sia comprendere che ci possa essere una discrepanza fra ciò che si fa e ciò che si è. A volte, questa distanza è molto ampia, e avvertirla fa un male cane. Forse la mia America è, molto più banalmente, questo disco – non tanto per l’associazione all’idea del self made man, quanto a quella di una realtà estremamente eterogenea e anche contraddittoria. Se penso che nello stesso contenitore ci sono canzoni come Atlante, che si regge praticamente solo su un fingerpicking su chitarra acustica, e poi una traccia come Un amore, con la cassa dritta e le chitarrone elettriche… Non sto dando un giudizio di merito, sia ben chiaro, la mia è una semplice riflessione estemporanea.
Se parliamo di America come realtà politica, non saprei che dire. Non sono mai stato negli USA. Posso riferire ciò che amo dell’America solo attraverso quello che ho letto, visto e ascoltato – ed è una visione senza dubbio parziale e viziata. Amo l’America che ho conosciuto grazie a Steinbeck, Roth, Lansdale, Bob Dylan, Tom Waits, Bon Iver. Di certo non amo l’America di Donald Trump.
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